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CAMINITO, intervista a Maurizio De Giovanni

In tempo per Natale, il commissario Ricciardi torna con un nuovo caso nella Napoli degli anni Trenta. Caminito (Einaudi) è in libreria, e abbiamo intervistato l’autore in occasione dell’uscita. Ecco cosa ci ha raccontato!

La trama

È il 1939, sono trascorsi cinque anni da quando l’esistenza di Ricciardi è stata improvvisamente sconvolta. E ora il vento d’odio che soffia sull’Europa rischia di spazzare via l’idea stessa di civiltà. Sull’orlo dell’abisso, l’unico punto fermo è il delitto. Fra i cespugli di un boschetto vengono ritrovati i cadaveri di due giovani. Stavano facendo l’amore e qualcuno li ha brutalmente uccisi. Le ragioni dell’omicidio appaiono subito oscure. Dietro il crimine si affaccia il fantasma della politica. Con l’aiuto del fidato Maione, Ricciardi dovrà a un tempo risolvere il caso e proteggere un caro amico che per amore della libertà rischia grosso. Intanto la figlia Marta cresce. Ormai, per il commissario, è giunto il momento di scoprire se ha ereditato la sua dannazione, quella di vedere e sentire i morti.

La nostra intervista

Il tango argentino è uno dei fili conduttori del romanzo, a partire dalla scelta del titolo. È stata la canzone a dare il ritmo al romanzo oppure è stata scelta dopo?

Per me Napoli è l’unica città sudamericana al di fuori del Sudamerica. In particolare, io riconosco un forte legame tra la città e l’Argentina, dove sono emigrati tanti italiani. Tango, canzone napoletana classica, bossa nova, sono in qualche modo ricongiungibili perché hanno una doppia componente. Da un lato una radice triste, dall’altro una allegra. Nel tango si avverte anche il dolore e Caminito è una canzone struggente, in quanto parla di un ritorno senza speranza.
La perdita non è un’assenza, ma le persone perdute non le ritroviamo al cimitero. Chi vuole ritrovare una persona amata la va a cercare nei luoghi dove ha vissuto con lei.
Caminito evoca proprio questo sentimento. Tutti i personaggi del romanzo hanno perso qualcuno: una moglie, un figlio, un amore.
Si può scrivere un romanzo nero, con tanto di delitto e indagine per risolverlo, senza perdere la poesia. O senza rinunciare a tutto l’amore che possiamo inserire in una narrazione.

L’impressione è che tu abbia in qualche modo approfittato del periodo storico in cui è ambientata la storia di Ricciardi per lanciare una specie di avvertimento riguardo al presente. O per ricordarci che certi fatti del passato che ci sembrano lontanissimi potrebbero impiegare poco tempo a tornare. È così?

Cinque anni dopo la storia narrata ne Il pianto dell’alba, tutto cambia sia a livello soggettivo, sia in generale nella Napoli che racconto. Il protagonista appare sì, da un lato, consolidato nel dolore per quanto gli è accaduto cinque anni prima. Dall’altro è un uomo che per la prima volta ha paura per sé stesso. Ha una figlia da proteggere, quindi non si comporta più in modo temerario come in passato. Siamo nel 1939 e l’Italia all’epoca era in una condizione simile a quella della Russia attuale. C’erano mire espansionistiche e una forte opposizione da parte degli altri paesi europei.

Un aspetto impressionante di quel periodo è l’uso smisurato delle lettere di delazione. C’erano tantissime persone pronte a denunciare parenti, amici, colleghi o vicini di casa. Non solo per danneggiarli, ma soprattutto per mettersi in buona luce e manifestare la propria adesione al regime. Questo generava una situazione incontrollabile, perché diventava difficile riuscire a controllare tutte queste denunce. Erano tutti contro tutti.
Questo romanzo potrebbe essere il primo di una trilogia che vorrei scrivere, ambientata tra il 1939 e il 1940 e con dei riferimenti alla musica argentina.

Presentando Il pianto dell’alba avevi dichiarato di voler mettere da parte il personaggio di Ricciardi. E anche che, nel caso di una ripresa, avresti fatto un grosso salto temporale, perché non volevi parlare del periodo estremamente negativo del conflitto mondiale. Cosa ti ha fatto cambiare idea?

È vero, in principio non volevo raccontare oltre il 1934, anno in cui finisce un’epoca. Da lì partono la guerra d’Africa, l’alleanza con i nazisti, l’autarchia, l’inasprimento del regime. Tutte cose che fanno cambiare l’atmosfera, perché finisce l’entusiasmo per il regime e inizia la follia.
Quando però mi sono messo a studiare più a fondo gli avvenimenti successivi ho scoperto cambiamenti inaspettati. C’è una duplicità di situazioni tra chi diventa sempre più timoroso e guardingo e chi, invece, sembra lanciarsi a folle velocità verso il futuro.
Riprendere in mano il mondo di Ricciardi a distanza di cinque anni mi ha fatto ritrovare molti personaggi profondamente cambiati, e non solo il protagonista. I bambini crescono, gli adulti risentono dei mutamenti politici.

Avevo anche immaginato di ripartire facendo diventare protagonista la figlia Marta, che avrei voluto raccontare come una donna adulta negli anni Sessanta. Mi ero persino immaginato che facoltà universitaria avrebbe dovuto frequentare. E che avrebbe avuto con sé un padre invecchiato e un po’ misterioso. Poi, però, ho capito che non ero pronto a lasciare da parte il personaggio di Ricciardi, perché m’interessava raccontarne la paternità. Io ho cresciuto i miei figli piccoli praticamente da solo, e per me è stato il periodo più bello della mia vita. Mi attirava quindi moltissimo l’idea di far vivere al commissario la mia stessa esperienza.

Livia Lucani, personaggio ricorrente nei romanzi precedenti compare in una sorta di sottotrama, in un luogo lontano e senza alcun collegamento con la vicenda principale. Perché questa scelta?

Livia è un personaggio a cui sono affezionato. È una donna piena di ferite, in qualche modo dannata dalla sua bellezza che impedisce alle persone di vederla in profondità. Si rifugia dall’altra parte del mondo, dove le stagioni sono invertite. È una migrante che ha lasciato dietro di sé una parte della propria vita, ma che forse non ha perso la speranza di tornare un giorno nel suo paese.

In questo romanzo domina il tema della famiglia, anche se non sempre in senso positivo. Ne vediamo di positive e avvolgenti, pronte ad affrontare qualsiasi problema. E ne vediamo anche di profondamente negative. C’è un’idea che volevi trasmettere in modo particolare?

Quando arriva la tempesta le famiglie si stringono di più, anche se non sempre nel modo migliore. Anche Ricciardi ha una famiglia, nonostante la mancanza della moglie. Ed è questa che cambia il suo modo di affrontare la vita.

Per quanto appartenga a un genere diverso, Caminito presenta molte affinità con L’equazione del cuore, il tuo romanzo precedente, almeno nel modo di trattare i sentimenti. È così?

Siamo così abituati alle storie da saper distinguere quelle scritte con passione dai loro autori da quelle che non mostrano la stessa passione. Ci sono troppe storie costruite solo con la testa, dove la passione non ha spazio. Io credo che nelle storie servano un po’ d’imperfezione e di passione, e un maggiore coinvolgimento dell’autore. Io scrivendo la mia storia mi sono commosso e ho riso. Credo che la nuova letteratura sia spesso troppo pensata. E che gli autori dovrebbero ricordarsi ogni tanto che stanno raccontando non loro stessi, ma dei personaggi che sono vivi e che da qualche parte potrebbero esistere davvero.

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CAMINITO di Maurizio De Giovanni (Einaudi) è in libreria, al prezzo di copertina di 19€.

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